10 Gennaio 2009: una data che ha cambiato per sempre la mia vita.
Sono passati anni; eppure, quando ci ripenso ancora mi commuovo e ricordo con entusiasmo la fatica, ripagata, con i tanti allievi. Ho avuto tanti incontri ed esperienze importanti, ma ciò che ha radicalmente cambiato la mia vita, sradicando le certezze e rimettendo tutto in discussione è stato il mio primo viaggio in Venezuela. Lì ho scoperto l’enorme “potere” della musica: ho capito che fare “solo” l’esecutore era un po’ come avere un’astronave parcheggiata vicino casa e usarla per andare a comprare il giornale.
Tutto iniziò grazie a Claudio Abbado: un giorno mi capitò di parlare con lui del Venezuela e, senza sapere nemmeno di cosa stessi parlando, gli dissi che mi sembrava interessante e che mi sarebbe piaciuto saperne di più. Lui immediatamente disse: “Vuoi venire?”.
Tra me e me pensai: “Perché no!”.
10 Gennaio 2009: un aereo mi conduce a Caracas.
Arrivo in una città dove il traffico supera ogni fantasia più perversa: milioni di macchine una in fila all’altra. Nessuno riesce a ingranare la seconda, in un’interminabile attesa fatta di tolleranza, rassegnazione e amari sorrisi. Contrasti accecanti tra grattacieli lussuosi e moderni, confinanti coi barrios, ricchi di colori ma poveri di tutto il resto.
Ragazzini sorridenti che girano in questi piccoli vicoli senza asfalto, con fogne a cielo aperto: povera gente che allestisce improvvisate bancarelle dove si vendono sigarette, a volte anche sfuse, a volte caramelle, a volte il nulla. Unico obiettivo: arrivare a fine giornata. Alcuni ragazzi sono vestiti alla moda, sfoggiando una ricchezza che stona e che provoca dubbi: troppo giovani per una collana d’oro o una Mustang ultimo modello adornata come un albero di natale. Molti altri ragazzi, però, hanno oltre al loro zainetto per la scuola, una custodia, a volte piccola, a volte, grande. Sono strumenti musicali.
In questo degrado è stato buttato un seme piccolo e potente che, come la vegetazione di quelle zone crescerà, lenta e inesorabile, ricoprendo tutto di bellezza.
Il primo giorno di lezione mi vengono presentati gli allievi, all’incirca una quarantina: ero spaventato e mi chiedevo come avrei mai fatto ad ascoltarli tutti. William Molina, violoncellista straordinario e persona splendida, mi disse: “In Venezuela è meglio dare 20 minuti di lezione a tutti che 1 ora ai migliori”. Entravo in aula alle 8 di mattina e ne uscivo alle 8 di sera. In più, avevo le prove con l’orchestra Simón Bolívar con la quale dovevo eseguire, da solista, il Concerto in la min. di Schumann. Non ho studiato per nulla in quei giorni, non ne avevo il tempo; eppure, non mai ho suonato in maniera così tranquilla e felice in tutta la mia vita.
Molina mi spiegò che in Venezuela tutti hanno diritto a fare musica: non esiste il concetto di audizione. La musica è considerata una medicina sociale, che non si rifiuta a nessuno.
Non conta la durata delle lezioni: possono essere cortissime, sempre individuali, ma con tutti gli altri allievi presenti in aula. Essenziale è che ognuno dei ragazzi abbia la possibilità di suonare qualcosa e ricevere un consiglio. Un modello educativo, creato da Abreu, che, permette a chiunque di studiare perché la musica è per tutti. I talenti vengono selezionati solo dopo, se si vuole entrare a far parte di una grande orchestra come la Simón Bolívar: prima no. Tutti hanno il diritto di fare musica, di studiare, di avere uno strumento, di fare un concerto, di stare in orchestra.
Un modello educativo che insegna, innanzitutto, il rispetto degli altri, l’accettazione delle diversità. L’orchestra, qui, diviene metafora della società ideale, dove tutti ascoltano tutti. Un bambino, in Venezuela, viene educato fin da subito ad ascoltare gli altri, prima che a imporre se stesso: per questo le orchestre in Venezuela funzionano. Tutti ascoltano, agevolano e aiutano gli altri. Non importa se il compagno di leggio è simpatico oppure no: l’importante è suonare; soprattutto, suonare insieme. Per un bambino questo è un imprinting fortissimo che cura la voglia di guerra, di violenza: nessuno in Venezuela tra quelli che fanno parte del Sistema prende una pistola in mano.
Ero venuto in Venezuela a insegnare, e la prima lezione l’ho ricevuta io. In questo Paese si mette uno strumento in mano a un ragazzino, evitando così che qualcun altro gli metta in mano una pistola. La mia responsabilità assume tutt’altro significato.
In Italia, una delle cose più difficili per un insegnante di musica, è trasmettere la propria passione: qui il problema è esattamente all’opposto. La passione per lo strumento, in generale per la musica, rappresenta la differenza tra una vita normale e felice e una vita di delinquenza con conseguenze quasi ovvie.
Il primo ragazzo si chiama Miguel, ha circa diciotto anni: è mulatto e con un sorriso luminoso come la vernice a spruzzo del suo violoncello cinese. Suona il Preludio dalla Suite n. 3 di Bach: subito, si intuisce che adora quella musica, anche se la suona come un pezzo romantico di fine Ottocento, senza capire nulla della sua struttura. La sua passione è disarmante. Dopo alcuni consigli tecnici, quasi di rito, gli chiedo cosa pensa quando suona questo brano. Miguel mi risponde che immagina scene di liberazione, cieli aperti e sereni e il colore rosso: non male, penso, per uno che non sa chi sia Bach. Cerco di spiegare un po’ di analisi strutturale del pezzo ma vedo che né io sono bravo a spiegare, né lui è in grado di capire. La musica in questi luoghi è una vera e propria metafora della vita di tutti i giorni: in un Paese comunista come il Venezuela, l’unico modo che riesco a trovare per spiegare la linea del basso continuo che regge tutta la struttura musicale, è quella di paragonarlo al “pueblo”. E imparo così, io stesso, un’altra lezione.
Il basso è come il popolo: se non sai cosa fa il popolo, in che direzione va, cosa pensa, come fai a guidare tutto il resto? Il ragazzo capisce immediatamente: una porta si è aperta!
Arrivano altri ragazzi, di livelli ed età differenti: non tutti sono dei talenti, ma, in comune, hanno una passione fortissima e disarmante. Tra di loro c’è chi ha un talento “selvaggio”, come quello che si è presentato con un violoncello a cui mancava la prima corda e mi ha detto: “Non importa: devo eseguire il Cigno, posso anche suonare tutto sulla seconda”. O un altro, ancora, che aveva dimenticato il suo violoncello 3/4 a casa e se ne era fatto prestare uno da 4/4 (considerevolmente più grosso): a 11 anni ha eseguito le Variazioni Rococò di Ciaikowsky su uno strumento, che come grande per lui come un armadio, gli “sfuggiva” da tutte le parti, ma senza sbagliare una nota.
In Venezuela ho acquisito una visione totalizzante della musica: una visione che ha smosso profondamente la mia mentalità, come uomo e come musicista. Quando smetti di essere “solo” un performer che va sul palco e suona per un pubblico; quando capisci che la musica può salvare delle vite e, addirittura, rimettere a posto l’economia di un Paese, come è successo qui; quando capisci che la musica, più in generale la cultura, ha il grande potere di “dirottare” le anime delle persone verso qualcosa di buono; allora, non puoi più “sottrarti” all’enorme responsabilità che l’essere musicista porta in sé.
Una responsabilità che mi ha permesso di guardare le cose da un’altra prospettiva, di capire che la musica è una medicina vera e propria, un’alternativa alla disperazione e al vuoto, ma anche un’ancora di salvezza per un intero Paese.
Qui la musica è un buon “affare”, da tutti i punti di vista, anche da quello economico. Più in generale, tutta la cultura è un ottimo business che rimette a posto non solo l’anima, ma anche i conti pubblici. Il Sistema di Abreu ha creato tantissimi posti di lavoro, rimettendo in sesto l’economia del Venezuela; oltre, naturalmente ad avere reinventato la pace, formando una mentalità che insegnasse all’uomo a non essere bellicoso. Abreu meriterebbe il Nobel per la Pace: anche se non ha mai lavorato direttamente alla pace, di fatto ha insegnato che un retroterra culturale solido, l’avere qualcosa di cui parlare e con cui esprimersi possono salvare e cambiare le persone.
Del resto, io stesso sono cambiato profondamente; proprio come profondamente mutato è il mio rapporto con la musica, divenuta “devozione” e considerata un dono.
Per prima cosa, mi è sparita la paura del pubblico. La musica è un’arte divina e un musicista è responsabile di ben altro che di sbagliare le note: quello succede, è umano. La paura nel senso di emozione rimane, ma ho capito che aver paura di “sbagliare le note” significa far prevalere la vanità, non voler apparire debole, avere timore del giudizio altrui. Quando metti in primo piano la responsabilità grandissima che ha il musicista, ossia quella di trasmettere un messaggio utile, il terrore, nel senso di vanità, sparisce.
Il talento e la passione di questi ragazzi stupisce enormemente, ma ciò che ha veramente cambiato la mia vita è stato il vedere cosa la musica abbia fatto a livello sociale, come è stata usata e quanti buoni frutti ha dato.
Dopo qualche giorno vengo invitato a sentire un concerto a Barquisimeto. Diego Matheuz mi dice: “Questa è la mia città: qui c’è un energia particolare”. Il concerto è in una chiesa non molto grande e sul podio c’è Gustavo Dudamel; in programma, diversi brani per coro e orchestra, tra i quali l’Halleuyah di Handel, l’ultimo tempo della Nona di Beethoven, l’Ave Verum di Mozart oltre a qualche pezzo di compositori venezuelani. Non mi accorgo subito di quello che sta succedendo.
Quando la musica inizia vedo delle onde bianche muoversi sopra le teste di uno dei tre cori, Las Manos Blancas: una delle esperienze più commoventi della mia vita! Quando William mi aveva detto che TUTTI hanno il diritto di fare musica, non avevo capito che anche i sordomuti fossero inclusi. Questo è un coro di sordomuti che “canta” le parole del testo usando il linguaggio dei segni; con i guanti bianchi si creano delle coreografie, quasi a voler dire “Stiamo cantando anche noi”.
Sembra di assistere a un vero e proprio miracolo. Chi ha detto che solo Dio può dare la possibilità di cantare a un muto? Il miracolo della musica si compie in maniera evidente.
In Venezuela, la musica sta risolvendo il problema della criminalità; inoltre, diffondendo la passione per l’ascolto si sta creando ricchezza, grazie alla creazione di nuovi auditorium, e di conseguenti nuovi posti di lavoro legati al mondo dei teatri.
La musica insegna la democrazia e l’accettazione di colui che è diverso, perché coinvolgendolo siamo portati a cercare ciò che ci unisce e scartare ciò che ci divide.